Iniziamo un viaggio che ci porterà a conoscere le altre cinque squadre che fecero l’impresa, ripercorrendo tutte formazioni nerazzurre che andarono in Serie A. La prima fu il Pisa 1967-68, la prima e unica promozione nel massimo campionato italiano da parte di una gestione pisana. Ecco gli eroi di quell’incredibile annata.
GIUSEPPE DONATI – Occorre prima iniziare da una premessa. Nella stagione 1963-64 fu eletto (sì, nel Pisa c’erano le elezioni) presidente Giuseppe Donati che rifondò completamente la struttura della squadra pisana, reduce da qualche buon anno in C, affidandola a Umberto Pinardi. Così, nella stagione successiva (1964-65) il Pisa vinse il campionato con Cervetto e Cosma capocannonieri del proprio raggruppamento. Dopo 13 anni la squadra tornò in Serie B. Furono disputati 2 campionati di Cadetteria, dei quali il secondo (1966-67) fu il più travagliato con una salvezza all’ultima giornata in quel di Reggio Calabria, colta grazie a una doppietta di Mascetti che consentì al Pisa di ottenere un pareggio indispensabile.
STAGIONE 1967-68 – Il mister della stagione precedente, Lucchi, dovette fare i conti con un calciomercato da cento milioni di lire. Lucchi si affidò a giocatori esperti, di sicuro affidamento: il portiere Annibale (27 anni), la mezzala Joan (28), il centravanti Piaceri (28), la mezzapunta Mascalaito (27). La gente storse la bocca, e qualcuno parlò anche apertamente di “reusorio”. Vista in termini di anagrafe la rosa pensata da Lucchi era realmente molto anziana, contando anche Federici (29 anni), Gonfiantini (30), Guglielmoni (27), Breviglieri (30), Cervetto (28); i più giovani titolari erano Manservizi e Gasparroni con i loro 23 anni. Pur non ignorando i possibili limiti dinamici e di tenuta di una siffatta rosa, Lucchi si dichiarò senz’altro soddisfatto della campagna acquisti e nel ritiro di Bagno di Romagna dove condusse la sua truppa, nella prima intervista disse: “Faremo un buon campionato perché è una rosa molto equilibrata”. Così accadde, al di là di ogni più rosea previsione. La squadra non denunciò mai i paventati limiti di dinamismo (anzi!) ed anche se accusò qualche problema di tenuta, fu del tutto giustificato da un campionato lungo e sfibrante; né il Pisa aveva ruolo di favorito, affidato invece a quello che la stampa aveva definito il “settebello” (Genoa, Lazio, Palermo, Verona, Catania, Bari, Foggia). Lucchi ed il suo vice Corradi fecero davvero uno straordinario lavoro; il gioco espresso dal Pisa in quel campionato rappresentò qualcosa di nuovo, tanto che sul settimanale L’Europeo Nino Nutrizio, nella sua rubrica sportiva, dedicò al gioco neroazzurro questo titolo: “La speranza viene da Pisa!”. Di quale speranza si trattava? Delle reti, che il Pisa segnava in gran numero (cinque al Messina, cinque al Bari, tre al Verona, tre al Palermo) capovolgendo un orientamento generale nel calcio italiano anche di massima categoria. I meriti furono di molti: del tecnico, della squadra, di un po’ di fortuna che non guasta mai, ma anche dei dirigenti, che non fecero mai pesare sull’ambiente qualche piccola crisi, che non mancò. Il Pisa superò così un momento di impasse dal 10 dicembre al 21 gennaio (ultima dell’andata, allorché fu finalmente sconfitto il Venezia): sei giornate senza vittorie che non provocarono dannose polemiche ma che furono superate con grande maturità dall’ambiente dirigenziale e dalla tifoseria. Del resto, a quel punto del campionato i momenti esaltanti non erano mancati; soprattutto due, indimenticabili: la vittoria sul Verona del 12 novembre e quella sul Livorno del 3 dicembre. Il Verona di Liedholm era temutissimo, aspirante alla promozione, quadrato, allenato da un maestro: la partita la risolse personalmente Sandro Joan che segnò tre reti. Il Verona lo aveva ceduto come ferrovecchio e lui si era vendicato. Più drammatico l’incontro con il Livorno, pur esso in lotta per la promozione; la tifoseria amaranto era foltissima e ribollente, ma di fronte al gran gioco ed alle tre reti del Pisa (ancora doppietta di Joan e capolavoro personale di Piaceri) i supporters livornesi ammainarono le bandiere avviandosi mesti verso le uscite dell’Arena: uno spettacolo epico, come di una grande armata sconfitta.
STAGIONE 1967-68: IL GRAN FINALE!!Il finale del campionato 1967-68 fu un vero thriller. Altre formazioni stavano venendo su alla grande (Bari) e l’attacco-mitraglia del Pisa aveva cominciato ad incepparsi; ci si avviava in posizioni di vertice verso il grande finale, ma niente garantiva di non rimanere beffati proprio alle ultime giornate. L’apoteosi era alle viste, ma la promozione era ancora tutta da guadagnare sul campo. La Serie A era lì, a portata di mano, una meta rincorsa per 42 anni, da quel funesto 1926 nel quale il Pisa aveva mestamente concluso la sua grande avventura con le “grandi”, subendo una serie di umilianti sconfitte (sette reti dal Verona e dal Bologna, sei dal Modena, cinque dal Legnano e dall’Andrea Doria). Era giunto il momento del riscatto, l’occasione forse irripetibile per ricucire il presente al mito del passato, agli anni eroici da tutti decantati dei Merciai e dei Tornabuoni, della finalissima con la Pro Vercelli, delle tradizioni più gloriose dello Sporting; per tutti, un’occasione di ricucire la storia stessa della città, sigillando con un successo sportivo — e quanto vissuto e sofferto! — quasi mezzo secolo di attese. Era un’aspettativa dalla quale sarebbero potute derivare curiose interpretazioni di psicologia di massa collegata al “fenomeno calcio”: possibile che una città avesse vissuto la sua storia, così ricca di episodi, di tristi o felici vicissitudini, di personali o collettive tragedie, nell’attesa di un riscatto calcistico? Pareva strano e per alcuni (pochi) perfino inaccettabile, ma così erano le apparenze: Pisa attendeva che il “suo Pisa” le desse una giornata di gloria, un ritorno all’antico. Ai fasti degli anni 1921-25? Fors’anche più in là, nei secoli, verso quegli anni realmente mitici dell’indipendenza civica di una grande repubblica che era stata marinara. Nell’attesa che il campionato 1967-68 completasse la sua classifica, tutto ciò pensava e soffriva la gente del tifo. L’estate era alle soglie, calda, profumata di mare e di vacanze, e c’era da temere il peggio per una formazione con qualche anno di troppo. I tre punti di vantaggio sulle terze (Foggia e Bari) e i quattro sulla quinta (Verona) non garantivano del tutto sulla tenuta finale della squadra nelle ultime tre partite di campionato. In più c’era una beffa: in quell’anno era prevista una giornata di riposo, che per i neroazzurri cadeva proprio l’ultima giornata. Una maniera temibile e beffarda di vedersi superare impotenti, senza poter lottare sul campo in un’estrema difesa delle proprie ambizioni. Il Pisa aveva pareggiato in casa con la Reggina (2-2) dopo essere stato in vantaggio 2-0, ma rischiando seriamente la sconfitta nel finale, con Annibale protagonista.
Il nuovo match casalingo con il Novara (terz’ultima giornata) era da vincere ad ogni costo, ma fu un nuovo pareggio (1-1), dopo che ancora una volta i neroazzurri erano andati in vantaggio, subendo la rimonta avversaria. Questo pareggio non comprometteva tuttavia la situazione: nessuna delle inseguitrici vinse e i rapporti rimasero identici (tre punti su Foggia e Bari, quattro sul Verona). Il 16 giugno — penultima di campionato — il Pisa viaggiò verso Venezia con largo seguito di tifoseria; ma la squadra era ormai nervosa, consapevole della posta in palio, forse un po’ cotta per le energie spese in un campionato esaltante ma durissimo. Lucchi tentò un incontro che consentisse alla squadra di portare a casa il punticino della tranquillità matematica; fu più un’impostazione psicologica che pratica, giacché lo schieramento era all’incirca lo stesso dell’ultima in casa, con il solo Piaceri rientrante al posto di Cervetto.La squadra soffrì questa impostazione, soffrì il clima afoso e umido della laguna, soffrì questa sua tifoseria così opprimente e implorante. Una tifoseria, se vogliamo, anche un po’ diffidente, che era salita a Venezia per incitare ma anche per controllare le reali intenzioni della squadra a voler salire in Serie A. Era infatti accaduto che parte dei tifosi non avessero accettato troppo serenamente il secondo pareggio consecutivo in casa (quello con il Novara) ed avessero gridato “venduti” ai giocatori neroazzurri, intravedendo nel loro parziale insuccesso un tentativo, magari pilotato dalla società, di rinunciare alla promozione. Erano tutte, ovviamente, fantasie. A Venezia, comunque, il Pisa non riuscì a spuntarla né a raccogliere un punticino che sarebbe stato utilissimo. Subita la rete di Spagni, la squadra attaccò inutilmente e colpì anche con Piaceri, proprio allo scadere, l’incrocio dei pali. Una sconfitta amara, alla quale si andava ad aggiungere il peggior risultato possibile: il Verona aveva vinto in casa del Bari di Toneatto! Fosse stato anche un pareggio, il Verona sarebbe rimasto a quota di sicurezza (45); con la rete di Bonatti (2-1) per il Verona, le due formazioni raggiungevano invece entrambe quota 46, collocandosi a portata del Pisa, che restava a 48 ma doveva riposare la domenica seguente. Congetturando mestamente, le migliaia di tifosi neroazzurri (erano saliti a Venezia quattro treni speciali e 61 pullman!) rientrarono a Pisa per affrontare quella che sarebbe stata un’autentica settimana di passione. Bisognava sperare. Quasi dieci mesi di campionato si concludevano senza gloria, con il Pisa costretto a starsene muto in attesa di fronte all’attacco quasi proditorio, sleale, degli altri. Questo significava la giornata di riposo collocata proprio nella fase cruciale del torneo! Il Foggia accolse il Palermo già promosso, ma quel risultato non interessava il Pisa (tre punti sopra i pugliesi); le risposte dovevano venire da Perugia, dove in campo scendeva un Bari agguerrito e sempre temibile per la sua appassionata tifoseria al seguito, e da Ferrara dove, in campo neutro, il Verona incontrava il Padova. Ma la speranza per il Pisa — fu subito chiaro — veniva soprattutto da Perugia, dove il Bari avrebbe incontrato una squadra duramente impegnata per non retrocedere. La settimana che precedette quello che giustamente fu definito il “giorno più lungo” non dette tranquillità alla tifoseria neroazzurra. Da Perugia le notizie erano sconfortanti: infortunati Balestrieri e Montenovo, si parlò di squadra in disarmo, sconfitta dalle sue stesse sventure. Possibile che il Pisa dovesse vedersi raggiunto per questa somma di sfortunate circostanze? Possibile: tutto infatti sembrava ordire verso un clamoroso spareggio a tre (Pisa, Bari, Verona) che non dava troppe garanzie ai tifosi neroazzurri. Il “giorno più lungo” iniziò dunque per i pisani molte ore prima del fatidico 23 giugno 1968; la città non proponeva niente, al di fuori del calcio, di quest’attesa che era forse preludio alla grande avventura. Film anonimi al cinema, usta mattinata di attesa trepida nelle strade; la distrazione fu la gita al mare per cullarsi, nel calore della sabbia, nell’illusione di una favola che non doveva interrompersi. Ci fu anche chi non volle attendere, subire, i risultati e se ne partì verso i luoghi degli altri scontri; così fecero alcuni dirigenti neroazzurri: Marcocci e Cristiani viaggiarono verso Perugia, Zucchelli con l’allenatore Lucchi andò a Ferrara. In città tutti fremevano. Quando alle 18:47 fu annunciato che il Bari aveva pareggiato e che il Pisa era in Serie A, la città ebbe un sussulto. Erano convenuti inviati dai vari giornali per assistere a questa reazione — mesta o esultante che fosse stata — di tutta una città in attesa: nessuno di loro rimase deluso e Pisa sportiva, con i suoi cortei, con le sue bandiere al vento, con il suo vessillo neroazzurro in cima alla Torre pendente, finì sulle prime pagine dei giornali italiani. Un’apoteosi di felicità.
Bibliografia:
– Il Pisa Fa 90
– Il Sogno Nerazzurro
– Pisa 1909, 100Pisa, un punto per ripartire
– Archivio Pisanellastoria